I presidenti
del Pakistan e Turkmenistan, Musharraf e Niyazov,
e il primo ministro afghano Hamid Karzai,
hanno sottoscritto il 30 maggio, a Islamabad,
un accordo che rilancia il progetto del gasdotto
Turkmenistan-Pakistan via Afghanistan. Secondo
il progetto, il gasdotto - lungo 1.500 km
e con una capacità annua di 30 miliardi
di metri cubi - partirà dal giacimento
turkmeno di Daulatabad e, attraversato l'Afghanistan,
arriverà al porto pakistano di Gwadar,
dove verrà costruito un impianto di
liquefazione del gas naturale. Sarà
la via più breve, ha sottolineato il
presidente pakistano Musharaff, attraverso
cui le risorse energetiche dell'Asia centrale
potranno essere trasportate in Giappone ed
Estremo Oriente e in Occidente. Solo a Daulatabad,
ha precisato Niyazof, vi sono riserve di gas
naturale ammontanti a 6.500 miliardi di metri
cubi. Il progetto, il cui costo è stimato
in 2 miliardi di dollari, si baserà
- ha detto Musharraf - sullo studio di fattibilità
già esistente, ossia su quello presentato
nel 1997 dal consorzio capeggiato dalla compagnia
statunitense Unocal (v. il manifesto, 18-10-2001).
Fatto singolare, si tratta dello stesso progetto
che i talebani avevano approvato nel gennaio
1998, dopo che una loro delegazione ad alto
livello era stata invitata negli Stati uniti
per colloqui con la Unocal. La compagnia statunitense
- dopo aver speso almeno 20 milioni di dollari
per finanziare anche «istituzioni benefiche»
talebane - si era però ritirata dal
progetto nel dicembre 1998 (in quanto a Washington
non si fidavano più del regime talebano),
annunciando comunque la sua disponibilità
a riprendere l'attività per la realizzazione
del gasdotto «quando l'Afghanistan conseguirà
la stabilità necessaria».
Il momento
è arrivato. A capo del governo afghano
c'è ora Hamid Karzai (anche se ad interim)
che - documenta Le Monde (6-12-2001) - «ha
perfezionato la sua formazione negli Stati
uniti, dove è stato consulente della
compagnia petrolifera americana Unocal, quando
essa studiava la costruzione di un gasdotto
attraverso l'Afghanistan». E l'inviato
speciale del presidente americano george W.
Bush in Afghanistan, Zalmay Khalilzad, è
stato anche lui consulente della Unocal, nel
periodo in cui redigeva lo studio di fattibilità
del gasdotto. Anche se la Unocal dice di non
essere interessata a ritornare in Afghanistan,
il ministro afghano per le miniere e industrie,
Alim Razim, ha dichiarato - e chi poteva dubitarne?
- di considerarla ancora la «compagnia
leader» per la realizzazione del progetto.
Ma è
a questo punto secondario se sia proprio la
Unocal a riprendere in mano il progetto. Fondamentale,
per Washington, è che ora esso può
essere controllato dagli Stati uniti. Nel
1999 - quando, dopo il ritiro della Unocal,
l'Afghanistan dei talebani, il Pakistan e
il Turkmenistan si erano accordati per portarlo
avanti affidandolo alla compagnia saudita
Delta Oil - gli Usa si erano visti tagliati
fuori. Ben diversa è la situazione
odierna.
L'area
attraverso cui dovrebbe passare il gasdotto,
cui sarebbe abbinato in seguito un oleodotto,
è presidiata militarmente dagli Stati
uniti e da governi alleati. Washington ritiene
quindi fattibile l'apertura di questo nuovo
corridoio, il più breve e meno costoso,
attraverso cui il gas naturale e petrolio
del Caspio può essere trasportato ai
paesi consumatori senza farlo passare dal
territorio russo, controllando in tal modo
una importante via dell'approvvigionamento
energetico dell'Asia orientale (Giappone compreso)
e degli Stati uniti stessi.
Regista
della riapertura del corridoio afghano è
Dick Cheney, che, prima di divenire vicepresidente
nell'amministrazione Bush, era Ceo (Chief
Executive Officer) della Halliburton, la maggiore
fornitrice mondiale di servizi per le industrie
petrolifere, con cui egli ha accumulato una
fortuna ricevendo per di più, come
liquidazione, un pacchetto azionario di 34
milioni di dollari. La Halliburton, la ExxonMobil,
la Conoco e altre compagnie statunitensi,
che hanno investito 30 miliardi di dollari
per lo sfruttamento delle riserve energetiche
del Caspio, premono per l'apertura del cosiddetto
corridoio afghano, che alcuni petrolieri texani
(dotati di cultura storica) hanno denominato
«la nuova via della seta».
La via,
però, è irta di ostacoli. Sul
piano interno, Cheney rischia di finire sotto
inchiesta per aver favorito illegalmente,
oltre alla Enron, anche la Halliburton. In
Afghanistan, il rilancio del progetto del
gasdotto acuisce lo scontro tra le fazioni,
che si disputano le centinaia di milioni di
dollari dei futuri diritti di transito. Inoltre,
una guerra nel subcontinente indiano potrebbe
bloccare la realizzazione del gasdotto, sia
in Pakistan che in India (dove, secondo una
variante del progetto, potrebbe arrivare una
sua derivazione). Una cosa, comunque, è
certa: se verrà realizzato, il gasdotto
(facilmente sabotabile) dovrà essere
presidiato da forze armate lungo tutto il
percorso. Alle popolazioni delle zone che
attraverserà esso non porterà
quindi alcun vantaggio, ma solo una maggiore
militarizzazione del territorio.
Manlio Dinucci
Il Manifesto 06 giugno
2002 |